Incomincio questa intervista con le scuse a Cartesio. Spero mi vorrà perdonare perché ho “utilizzato” la sua frase che con due verbi ed un avverbio… lo ha identificato fino ad oggi. Cartesio nasce verso la fine del cinquecento, secolo che si lascia alle spalle un Medioevo con le sue luci e le sue ombre. Un Medioevo illuminato dalle torce sulle torri fortificate, nelle nebbie della inquisizione, nel fragore degli zoccoli dei cavalli appesantiti dalle armature dei nobili. Stemmi dei casati, elmi fantasiosi, alabarde appuntite, intrighi di palazzo. Tra le strade strette di pietra e poco illuminate, la gente sopravviveva, commerciava, si inventava un futuro. Poi arrivò il cinquecento. Il pensiero medievale, che considerava l’Uomo al servizio di un Bene superiore, si scontrò con il pensiero cinquecentesco che riposizionò la Ragione dell’uomo al centro del mondo, nella ricerca filosofica delle risposte ultime: il senso dell’esistenza e della sua immortalità. Ma anche il cinquecento, come ogni secolo, lasciò posto al successivo e presentò le sue credenziali, grazie ai pensieri filosofici del grande Cartesio. Questo personaggio, dallo sguardo profondo, si distinse per la lucidità intellettuale, applicando la matematica al rigore scientifico, ponendo le basi del metodo analitico della Scienza stessa. Cartesio, grazie al suo intuito, pubblicò la sua prima opera in anonimato proprio per valutare l’impatto del suo ragionamento sulla mentalità del tempo. Ottenuto il consenso negli ambienti intellettuali, Cartesio propose a tutto il mondo di allora il concetto del dubbio. Dubbio delle conoscenze acquisite attraverso i sensi che possono… anche ingannare. Dubbio tra sensi e ragione, tra sostanza pensante e sostanza corporea, fino alla conclusione che… esiste prima l’anima, poi il corpo: il pensiero dell’uomo certifica la sua esistenza. Cogito, ergo sum. Penso, dunque esisto. A questo punto si innesca il motivo per cui ho deciso di scegliere Cartesio per intervistare il Prof. Dott. Censori. Perché si sta parlando di testa pensante che contiene un cervello. Cervello che normalmente funziona bene, ma si può ammalare. Si può fortemente e improvvisamente “bloccare”. Elaborare un pensiero è un privilegio, così come strategico è preservare la funzione dell’organo pensante, il sistema cerebrale. Il prezioso, delicato, silenzioso cervello corrisponde ad un valore supremo, al quale affidiamo la nostra identità. Se ho un cervello, mi posso anche ammalare? Cogito… ergo ictus? No, grazie, speriamo proprio di NO! Occorre però ipotizzare che il cervello (nella sua entità globale) possa avere problemi. Appartiene alla vita la capacità di funzione, ma anche la disfunzione. E nel caso accada un problema serio, come l’ictus cerebrale, siamo tutti chiamati (come professionisti sanitari) a sapere riconoscere i segni prima dei sintomi, quando sia possibile. Questa è la direzione intellettuale dell’intervista, che potrà fornire elementi minimali di conoscenza in merito ad una eventuale emergenza improvvisa cerebrale, capace di distruggere le relazioni, la memoria, il pensiero, sottraendo la dignità di esistenza al maggiore interprete dell’Universo. L’Uomo. Con gratitudine, ringrazio il Prof. Censori, che ha compreso la mia richiesta di intervista, dimostrando disponibilità immediata, rispondendo con un linguaggio semplice e chiaro.
Gentilissimo Prof., nella attività ordinaria dello Studio Dentistico possono verificarsi, come in ogni professione sanitaria, situazioni imprevedibili. L’ictus cerebrale, nella sua comparsa, è totalmente imprevedibile?
Ho accettato volentieri questa intervista, caro Almini, perché mi permette di diffondere e divulgare le conoscenze dell’ictus cerebrale a tutta la categoria odontoiatrica. Per rispondere alla domanda, nel paziente che tipicamente si presenta allo studio odontoiatrico è molto improbabile che si sia verificato un HA o un minor stroke (ictus lieve) nei giorni o nelle settimane precedenti. Quindi, esiste sempre una imprevedibilità, ma ci possono essere alcuni segni da valutare.
Quali ad esempio? Già avere attenzione alla raccolta anamnestica dei segni rivelatori potrebbe essere il primo passo di un nuovo approccio odontoiatrico…
Potrebbero essere considerati elementi anamnestici “robusti”: la debolezza transitoria o persistente di un arto o di un emisoma, la leggera deviazione facciale inferiore chiara (non lieve o soggettiva), un lieve disturbo del linguaggio (chiara disartria o afasia). Soprattutto in area odontoiatrica, le prove fonetiche hanno per voi un ruolo importante, avete pertanto una particolare capacità di ascolto dei fonemi e del linguaggio del paziente. Attenzione: l’esordio di queste situazioni deve essere improvviso (pochi secondi o minuti) e deve essere stato notato dal paziente. Questi dati anam-nestici sono particolarmente significativi nei pazienti di età superiore a 60 anni e con fattori di rischio vascolare (fumo, diabete, ipertensione, dislipidemia, cardiopatie, fibrillazione atriale, obesità).
La raccolta anamnestica è sempre comunque utile. Giusto?
Certo. Occorre però precisare che, naturalmente, l’anamnesi può essere positiva solo nel caso dell’ictus ischemico. Nel caso dell’emorragia cerebrale non ci sono mai prodromi di tipo TIA (lasciamo da parte l’emorragia suba-racnoidea, che rientra tra gli ictus, ma è rara).
Esiste la possibilità che anche in caso di totale assenza di elementi anamnestici (utili al sospetto di una potenzialità di comparsa), l’ictus può comparire senza alcuna avvisaglia?
Sì, purtroppo. L’anamnesi ci aiuta ma oltre la metà dei casi l’ictus non è preceduto da alcun sintomo transitorio. Dalla raccolta anamnestica diventa evidente quanto siano strategici gli stili di vita nella eventuale comparsa di ictus… Beh, non ci sono dubbi. Nulla di nuovo. Sappiamo bene che possono fortemente favorire l’ictus la sedentarietà, la scarsa attività sportiva e fisica, la dieta con scarso consumo di frutta e verdura, l’eccesso di grassi saturi e zuccheri, il fumo, l’eccessivo consumo alcoolico (> 10 mi di alcool al giorno, cioè più di 200 mi di vino), l’abuso di sostanza simpaticomimetiche (cocaina, amfetamina, crack).
Prof., potremmo dire che, volendo, gli stili di vita potrebbero essere modificati secondo una propria volontà personale. Da questo punto di vista, cosa si potrebbe aggiungere?
Semplicemente, occorre non dimenticare che esistono fattori di rischio modificabili e non modificabili. Le condizioni che facilitano l’ictus sono i classici Fattori di rischio vascolare. Ci sono quelli non correggibili (età, sesso maschile, razza, ereditarietà) e quelli correggibili: ipertensione arteriosa (n° 1), fumo (la sigaretta elettronica sembrerebbe non influenzare negativamente la vera sigaretta, ma è ancora presto per confermare questa valutazione), il diabete mellito, l’ipercole-sterolemia, le cardiopatie emboligene (soprattutto la fibrillazione atriale, ma anche la cardiopatia dilatativa ischemica e le protesi valvolari), come già detto, anche l’eccessivo consumo al-coolico. Omocisteina e le trombofilie ereditarie, di cui si è tanto scritto negli ultimi 20 anni, sono decisamente meno importanti tra i fattori di rischio.
Indipendentemente dallo stile di vita, l’ictus emorragico corrisponde sempre ad una situazione più grave dell’ictus ischemico?
Sì, senza dubbio. L’ictus emorragico è più grave di quello ischemico. La mortalità a 1 mese è del 33% circa per l’emorragia cerebrale, rispetto al 15-18% per l’ictus ischemico; a 1 anno la mortalità è del 50% circa per l’emorragia cerebrale contro il 30% circa per l’ictus ischemico; un elevato numero di sopravvissuti rimane con una disabilità grave.
Questa maggiore gravità è dovuta al meccanismo patologico che sostiene questo tipo di ictus, giusto?
La ragione della maggiore gravità è intrinseca alla emorragia cerebrale. Quando si rompe una arteria intrapa-renchimale, Il sangue entra con pressione elevata nel tessuto, causando una ampia distruzione di cellule e un volume di lesione maggiore di quello provocabile, normalmente, dalla ischemia. Di conseguenza, il danno parenchimale e la ipertensione endocranica, con il conseguente rischio di erniazione cerebrale, sono di maggiore entità, potendo quindi determinare mortalità e disabilità gravi.
Nei casi di ictus emorragici, quali sono le opportunità terapeutiche per ridurre la disabilità, tanto più menomanti in ambito libero professionale?
Le procedure rianimatorie d’urgenza sono l’intubazione e la ventilazione. La gestione delle complicanze dell’ictus sono rivolte soprattutto a migliorare l’immobilità, la disfagia, la ritenzione urinaria, la polmonite. La gestione e prevenzione delle complicanze aiutano a ridurre la mortalità e disabilità permanente. Nei casi con ipertensione endocranica l’uso degli antiedemigeni aiuta a ridurre gli effetti della ipertensione endocranica. In casi selezionati, la evacuazione chirurgica dell’ematoma oppure la emicraniectomia decompressiva (si rimuove un ampio lembo della teca cranica per far espandere all’esterno il cervello e ridurre la pressione sulle altre strutture cerebrali) riducono la mortalità da erniazione cerebrale, ma non la disabilità. La riabilitazione precoce migliora, dove e quando possibile, la prognosi. La gestione del paziente in un ambiente specializzato (Terapia Intensiva e poi Stroke Unit) riduce le complicanze e aumenta le percentuali di pazienti che non sono indirizzati verso una RSA (casa di riposo), ma tornano, pur con prognosi diverse, al loro domicilio, alla residenza di sempre, la casa come punto di riferimento emotivo-relazionale.
Attualmente, per l’ictus cerebrale è possibile prevedere grandi spazi di miglioramento prognostico?
Al momento non abbiamo a disposizione alcun trattamento farmacologico o chirurgico specifico che cambi la prognosi della emorragia cerebrale tout court nelle prime ore dall’esordio. È possibile che la riduzione della pressione arteriosa sistolica sotto un valore di 140 mm Hg ottenuto nelle prime ore dalla emorragia migliori la prognosi, ma l’effetto non è accettato da tutti. Poiché circa 1/3 delle emorragie cerebrali aumentano di volume del 30% nella prima giornata dall’esordio, sono state provate diverse terapie per bloccare la crescita dell’ematoma. Tuttavia, nessuna di queste ha dimostrato di poter migliorare l’out come funzionale (ridurre mortalità e/o aumentare la percentuale di pazienti con disabilità assente o lieve-moderata), nonostante si siano dimostrate in grado di contenere la crescita dell’ematoma. Anche per la chirurgia, non c’è nessuna indicazione generale per un intervento di drenaggio dell’ematoma. Solo nei casi con emorragia superficiale e rischio di erniazione incipiente si può considerare l’intervento, tenendo in considerazione l’età del paziente e le condizioni cognitive precedenti all’emorragia.
L’ictus emorragico, quindi, è certamente un fenomeno patologico che influisce pesantemente sulla vita di relazione nella fase post-evento, qualora non abbia comportato il decesso. Per l’ictus trombotico, invece, è possibile una restitutio ad integrum, qualora l’intervento di emergenza fosse tempestivo?
Sì. Con le terapie ricanalizzanti attuali (trombolisi endovenosa e trombecto-mia endovascolare), la percentuale di pazienti che recupera completamente la funzione aumenta in modo statisticamente significativo e quantitativamente rilevante.
Trombolisi endovenosa e trombectomia endovascolare. Che tempistica e che modalità?
La trombolisi endovenosa può essere usata entro 4, 5 ore dall’esordio dei deficit, mentre la trombectomia endovascolare consiste nella estrazione del trombo con una procedura locale endovascolare. In questo caso, la finestra di intervento corrisponde alle prime 6 ore dall’inizio dei sintomi. Se con tecniche di imaging neuroradiologico (TAC o RMN) si dimostra la presenza di tessuto cerebrale ischemico ma ancora recuperabile (si chiama “mismatch”), la soglia di intervento può arrivare alle 16-24 ore. Questo è importante soprattutto per quegli ictus ischemia di cui non è noto il momento di esordio, come quelli che tipicamente si notano al risveglio del paziente.
Grazie Prof, per questo linguaggio chiaro e semplice. In precedenza ha citato i TIA come sigla. A cosa corrisponde esattamente?
Grazie a voi per questa opportunità divulgativa, che ritengo sempre segno di professionalità formativa. La sigla TIA corrisponde a: Transient Ischemie Attack, cioè attacco ischemia) transitorio.
Ovvero?
È un deficit neurologico focale (emiparesi, afasia, deficit del campo visivo), di natura ischemica, ad esordio improvviso, che regredisce in modo completo. La durata del TIA si riteneva in passato essere inferiore alle 24 ore, ma negli ultimi anni sta prevalendo la visione che il vero TIA possa durare non più di 1 ora. Inoltre, dal 2004-2009 la letteratura suggerisce di dare una definizione del TIA basata non solo sulla durata dei sintomi ma anche sulla presenza o assenza di una lesione cerebrale ische-mica congrua, mostrata dalla RMN cerebrale con sequenze DWI. Se c’è la lesione, anche piccola, la diagnosi si orienta verso un ictus, se la lesione non c’è o è totalmente scomparsa, la diagnosi si dirige verso un TIA. Questa posizione si basa sulla osservazione che quanto più a lungo dura il TIA, tanto più aumenta la probabilità di trovare una lesione ischemica cerebrale congrua, anche se i deficit sono regrediti completamente entro le tradizionali 24 ore. Una piccola lesione ischemica recente si vede nel 50% circa dei pazienti con TIA che durano più di 6-12 ore e forse nel 30% di quelli con TIA che durano da 1 a 3 ore.
Molto interessante questa prospettiva!
Sì. Si preferisce parlare di criteri “basati sul tempo” versus criteri “basati sul tessuto” cioè sulla presenza di una lesione ischemica. La utilità di questa distinzione starebbe nel fatto che se c’è una lesione acuta, con deficit transitori, il rischio di una recidiva ischemica a breve termine è più elevato. Quindi si devono intensificare il più possibile tutte le misure di prevenzione della recidiva, incluso, talvolta, l’uso di due antiaggreganti al posto di uno solo.
Nell’ambito odontoiatrico, le anestesie locali appartengono alla ordinarietà, proprio nella loro funzione di permettere le prestazioni senza determinare dolore o per annullare il dolore stesso. Le anestesie, per loro natura chimica, contengono catecolamine. Nel caso di numerose fiale necessarie per chirurgia complessa, esiste la possibilità che possano influire sulla comparsa di un ictus, scatenando un episodio vascolare, successivo ad un aumento pressorio generale, quindi anche endocranico?
La risposta complessiva è NO. A meno di dosaggi straordinariamente elevati o errori di iniezione intraarteriosa, si ritiene che le catecolamine contenute negli anestetici locali NON AUMENTINO il rischio di ischemia o emorragia cerebrale. Semmai, i vasocostrittori + l’ansia + l’eventuale dolore (che dovrebbe però essere abolito dall’anestesia) possono facilitare aritmie cardiache o reazioni del sistema nervoso vegetativo o con rialzi pressori rilevanti.
Pensando ad un episodio emorragico, esistono attività sportive che possano favorire le potenzialità di sviluppo di forme di ictus?
Complessivamente no, se non si usano sostanze simpaticomimetiche o con effetti collaterali protrombotici per migliorare le prestazioni. I traumi alle arterie cervicali che si possono riportare in occasione di sport con traumi e contatti fisici possono provocare la dissecazione delle arterie a destino cerebrale (carotidi e vertebrali), ma questo è un evento davvero molto raro se si considerano la quantità di sportivi professionisti e la intensità degli sforzi che devono affrontare, sia in gara che in allenamento. In teoria, nel sollevamento pesi, la pressione sistemica può aumentare al punto di facilitare una emorragia cerebrale o la rottura di un aneurisma intracranico, ma queste sembrano essere patologie molto rare nel mondo dei sollevatori di pesi.
Mentre dal punto di vista prognostico l’ictus emorragico e l’ictus trombotico si differenziano molto, clinicamente invece come si presentano?
Sostanzialmente si presentano nello stesso modo, se per ictus emorragico si considera solo l‘emorragia intraparenchimole. In passato si pensava che l’emorragia cerebrale fosse sempre più grave dell’ictus ischemico, ma con l’uso della TAC si è osservato che non poche emorragie intraparenchimali sono di piccole dimensioni e quindi associati a deficit lievi o moderati. Solo la cefalea e il coma fin dall’esordio sono più frequenti nella emorragia intraparenchimale. Invece, nel caso dell’emorragia suba-racnoidea (ESA), che rientra sempre nell’ictus emorragico, la presentazione è quasi sempre diversa dall’ictus ischemico. Cefalea isolata (con o senza perdita di coscienza transitoria) e coma all’esordio… sono i quadri clinici più frequenti nell’ESA e quasi mai presenti nell’ictus ischemico.
Qualora il paziente fosse di fronte a noi, all’interno dello Studio dentistico, o qualora ci trovassimo in altre situazioni (vacanza, viaggio, attività sportiva…), quali sono i segni che potremmo riconoscere sul volto del soggetto colpito da ictus?
Le dirò, Dott. Almini, solo la deviazione della rima buccole ha un valore diagnostico vero, soprattutto se NON è associata alla incapacità di chiudere l’occhio omolaterale. Se è presente anche la incapacità di chiudere l’occhio (lagoftalmo), è molto più probabile che si tratti di una paralisi periferica del nervo facciale.
È opportuno non sforzarsi troppo di trovare una ipocinesia della rima buccale, perché piccole asimmetrie statiche o dinamiche della rima orale sono fisiologiche e presenti in molte persone. Il deficit facciale deve essere abbastanza evidente all’ispezione di base oppure facendo sorridere/digrignare i denti al paziente. Gli odontoiatri per loro abitudine hanno una particolare capacità di osservazione. Altri segni riconoscibili sul volto del paziente possono essere lo strabismo (deviazione patologica di un occhio all’interno, esterno, basso o alto) e il nistagmo. Consiglio, anche in questi casi, di non sforzarsi troppo nel ricercarli perché un nistagmo esauribile è presente in molte persone e nella gran parte dei casi lo strabismo potrebbe essere leggermente preesistente, congenito o acquisito da molti anni per lesione di un nervo oculomotore.
Esistono segni clinici che si affiancano eventualmente a quelli presenti sul volto?
Anche in questo caso, è meglio dare valore a segni di facile riconoscimento. La mono- o emiparesi degli arti ha grande valore. Anche la afasia, cioè un disturbo del linguaggio con errori di sillabe, lettere o parole intere è quasi sempre significativa. Altri sintomi quali vertigini, diplopia o parestesie da sole hanno scarso significato. Se si associano a una deviazione della rima orale, paresi o afasia rafforzano il sospetto di ictus, ma da sole, anche se ad esordio recente, raramente indicano una ischemia cerebrale. La cefalea, infine, se associata a una paresi facciale inferiore ad esordio acuto o recente, di nuovo, rafforza certamente il sospetto. Se è isolata, invece, non indica praticamente mai un ictus.
Ma esistono sintomi premonitori di un ictus rilevabili dal paziente stesso?
Solo i TIA hanno un vero significato premonitore. Se il paziente racconta di 1 o 2 episodi di emiparesi o afasia transitorie nei giorni o nelle settimane precedenti è probabile che il suo rischio di avere un ictus nel prossimo futuro sia aumentato e sicuramente potrebbe avere bisogno di una valutazione neurologica urgente. Altri sintomi, come quelli sopra elencati (cefalea, vertigini, diplopia, parestesie) hanno scarso significato, soprattutto se accadono da anni o si sono ripetuti molte volte.
È possibile, nella prima fase, distinguere in base a segni e sintomi un episodio emorragico da un episodio trombotico?
Come detto prima, sostanzialmente non è possibile. Solo la cefalea acuta e il coma all’esordio indicano più facilmente una emorragia rispetto ad una ischemia. Nemmeno i neurologi vascolari esperti si affidano alla diagnosi clinica per distinguere un ictus ischemico da una emorragia intraparenchimale. La TAC cerebrale, in modo rapidissimo (dura circa 1 minuto), immediatamente consultabile e inconfutabile stabilisce la diagnosi. Dal punto di vista pratico, poi, non c’è nessuna utilità nel tentare di fare la diagnosi differenziale tra emorragia e ischemia prima di aver fatto la TAC, perché nell’Incertezza NON bisogna somministrare alcuna terapia, né antiaggregante, né anti-ipertensiva.
C’è una sola cosa giusta e necessaria da fare nel sospetto di ictus acuto ed è di chiamare il 118. Questo perché in provincia di Bergamo esiste una rete territoriale nota al 118 che fa sì che il paziente con sospetto di ictus acuto venga valutato al telefono e in situ dal personale del 118; sarà portato direttamente in uno dei tre ospedali della provincia che fanno la trombolisi endovenosa (Bergamo, Treviglio e Zingonia-Policlinico S. Marco) e non all’ospedale più vicino! Questa notizia mi rasserena molto e mi privilegia come cittadino abitante in provincia di Bergamo. Deve obbligare ad una meditazione sul significato strategico di rete, qualora l’emergenza richieda un intervento appropriato e secondo una urgenza temporale. In caso l’episodio accada all’interno di uno Studio Dentistico ci sono manovre che l’odontoiatra dovrebbe attivare subito? Come detto prima, nessuna terapia farmacologica alla cieca, nemmeno se la pressione arteriosa è elevata (ma inferiore a 200 mm Hg).
Alcune manovre utili potrebbero essere: tenere il paziente sdraiato, girato sul fianco destro in posizione di sicurezza, qualora abbia perso coscienza. Testa e tronco a 0° se c’è ipotensione, con arti inferiori sollevati, altrimenti testa e tronco a 30°. È bene anche misurare la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca. Importante sarà anche valutare l’elenco dei farmaci eventualmente prescritti nei giorni precedenti o somministrati in Studio a motivo della prestazione in corso.
Molto importante, per esempio, è valutare se risultasse dalla scheda medica del paziente l’assunzione di farmaci antiaggreganti o anticoagulanti.
Nel caso l’episodio di ictus accada, per accanimento del destino, proprio durante una fase chirurgica con un sanguinamelo non controllato essendo in una fase di chirurgia non ultimata (e non suturata) questa situazione potrebbe peggiorare la situazione?
No, il sanguinamento da una ferita odontoiatrica difficilmente può peggiorare il quadro clinico. Se non è possibile ultimare la sutura, si può semplicemente tamponare in attesa del 118.
Le dita di un odontoiatra sono preziose. In caso di ictus, indipendentemente dalla eziologia, le mani sono spesso coinvolte?
Non sempre, solo se la lesione ha colpito anche l’area della mano o le fibre della mano contenute nel fascio piramidale. È difficile stimare in quale percentuale di casi questo avvenga, ma si può pensare che sia intorno al 50-60%. Nel caso degli ictus al di sotto dei 60 anni, poi, questa percentuale è sicuramente molto minore, perché gli ictus ischemici in questa fascia di età sono mediamente meno gravi.
Una importante precisazione: in pazienti scoagulati per altre patologie, a cui si richiede di sospendere il loro schema farmacologico prima di una chirurgia odontoiatrica, possono avere maggiori rischi qualora la fase chirurgica richieda numerose fiale di adrenalina, non previste ma necessarie per una complicanza chirurgica imprevista?
Ritengo che la risposta sia no. Forse molte fiale di adrenalina possono aumentare il rischio di aritmie cardiache, ma non di ictus cerebrale. Anche se il paziente era scoagulato per una fibrillazione atriale, cronica o parossistica, il suo rischio di embolia cerebrale deriva solo dalla sospensione della terapia anticoagulante e non dalle manovre o dalle terapie a cui è sottoposto in studio.
Giorno, notte, mattina, pomeriggio… L’ictus può presentarsi ad un orario preferibile?
Domanda interessante: circa il 25% degli ictus ischemici inizia di notte. Negli altri casi l’orario è imprevedibile. Questa è una percentuale da conoscere, ma non esaustiva per dare certezze.
Le situazioni di convivialità, con cena e vino abbondante, possono essere considerate prodromiche ad eventi scatenanti dal punto di vista vascolare?
Si ritiene che l’eccessivo consumo alcoolico occasionale possa aumentare il rischio di aritmie cardiache emboligene, come la fibrillazione atriale, e in questo modo favorire l’ictus ischemico. Se le cene “abbondanti” non sono frequenti, non c’è rischio a lungo termine.
Fonte: Teamwork