INTRODUZIONE
Nel corso degli ultimi anni, sulla scia di un’evoluzione culturale già avviata nel mondo anglosassone, si è assistito a una radicale trasformazione del rapporto medico-paziente caratterizzata da una ridefinizione degli spazi di potestà decisionale che competono ai protagonisti dell’atto medico. Di pari passo sono stati compiuti notevoli progressi tecnici in ambito odontoiatrico, tanto in campo diagnostico quanto in quello terapeutico e riabilitativo – funzionale ed estetico – con possibilità di completa risoluzione anche di situazioni complesse e gravemente compromesse. A fronte di questi progressi, tuttavia, si registra un progressivo aumento di accuse di malpractice nei confronti dei medici, verso cui viene meno quell’atteggiamento di devota considerazione che i pazienti riservavano agli stessi. Accanto all’elemento tecnico di presunta responsabilità si affianca anche quello di carattere deontologico rappresentato dall’acquisizione di consenso informato invalido, evenienza che sposta l’attenzione dall’analisi di appropriatezza del comportamento tecnico alla verifica della qualità dell’atto informativo. Come conseguenza di ciò e in linea con quanto accade nelle altre nazioni occidentali, si registra una crescita esponenziale anche nel nostro paese di controversie aventi come oggetto la responsabilità professionale dei sanitari.
LA MEDICINA DIFENSIVA
Il clima di inquietudine e di allarmismo dei sanitari ha fatto sì che sorgesse la cosiddetta “medicina difensiva”, in cui le scelte diagnostiche e terapeutiche non sono dettate dall’interesse primario del paziente, ma dall’obiettivo del medico di ridurre la propria esposizione al contenzioso legale. Il rapporto tra medico/odontoiatra e paziente ha subito una radicale evoluzione negli anni più recenti, realizzandosi il viraggio da una relazione di tipo paternalistico (ancorata a un modello di beneficialità della medicina in base al quale l’attività sanitaria era finalizzata all’intervento correttivo dei bisogni psicofisici del paziente, anche al di fuori della stessa dichiarata volontà in nome del suo preteso interesse) a una interrelazione in cui è valorizzata l’autodeterminazione del paziente (caratterizzata da una ridefinizione degli spazi di potestà decisionale che competono ai protagonisti dell’atto medico, con assoluta valorizzazione del ruolo assegnato all’informazione e al consenso per la legittimazione dell’intervento sanitario). Alla rivendicazione sempre più insistente del paziente di voler ricevere un’esaustiva informazione per potersi determinare in piena autonomia, si contrappone la ricerca spasmodica da parte del medico/ odontoiatra della sottoscrizione di modelli di consenso informato nella convinzione che la vidimazione del paziente sia sufficiente ad allontanare lo spettro di accuse di malpractice. Peraltro, la necessità di numerosi e ravvicinati incontri per la finalizzazione di un trattamento odontoiatrico ha insito il pericolo dell’istaurazione di una relazione fiduciaria di tipo amicale tra i due protagonisti del rapporto di cura, con progressiva tendenza da parte del professionista ad assumere decisioni senza informare il suo assistito nel convincimento che quest’ultimo si sia affidato alle sue cure in modo incondizionato (Comitato Nazionale per la Bioetica. Bioetica in Odontoiatria. Roma, 24 giugno 2005). In un volume redatto dall’Office of Tecnology Assessment (OTA), al termine di un’indagine conoscitiva commissionata dall’Limited States Congress, la medicina difensiva è stata così definita: “La medicina difensiva si verifica quando medici prescrivono test, trattamenti o visite, o evitano pazienti o trattamenti ad alto rischio, primariamente (ma non necessariamente in modo esclusivo) allo scopo di ridurre la propria esposizione al rischio di accuse di malpractice. Quando i medici eseguono extratest o trattamenti principalmente per ridurre le accuse di malpractice, essi praticano la medicina difensiva positiva. Quando essi evitano determinati pazienti o interventi, essi praticano la medicina difensiva negativa.Le ragioni principali per le quali i medici e gli odontoiatri tendono a sovraprescrivere accertamenti sono identificate nella possibilità di rilevare malattie in fase subclinica, nella mancanza di conoscenza o fiducia nelle proprie capacità o anche per soddisfare le aspettative dei pazienti e per un proprio profitto. Il risultato di tale condotta ha portato all’incremento dei costi delle cure mediche erogate e alla riduzione dell’accessibilità alle stesse, nonché al rischio di produrre danni al paziente e di erogare cure mediche di minore qualità. Al fine di contrastare l’incremento della spesa sanitaria e l’esecuzione di esami clinici inutili e rischiosi per la salute e la vita dei pazienti, si è diffuso a livello internazionale il movimento less is more. Tale movimento si è giovato del diffondersi di iniziative di supporto da parte di numerose società scientifiche e riviste specializzate e ciò testimonia che non si tratta di un episodio isolato, né di una moda temporanea. Si basa su tre pilastri fondamentali quali principi ispiratori di coloro che operano in ambito sanitario:
- consapevolezza che test diagnostici e trattamenti inappropriati causano danni reali;
- integrazione delle migliori evidenze scientifiche nelle decisioni cliniche, rispettando preferenze e aspettative del paziente;
- ottimizzazione delle scarse risorse disponibili, riducendo gli sprechi.
Un’ulteriore possibile conseguenza di comportamenti difensivi è il concentramento del trattamento di pazienti affetti da patologie complesse in strutture sanitarie preferite per l’alta qualità statisticamente certificata delle cure erogate, determinando così difficoltà organizzative per la medesima struttura e peggioramento dei risultati attesi per tale centro in cui si verifica il concentramento di casi clinici più complessi. Gli effetti negativi del diffondersi delle accuse di malpractice sul rapporto medico-paziente vennero già evidenziati sul finire degli anni Sessanta dalla Suprema Corte della Pennsylvania in una sentenza in cui si disse: “se continuerà la crescente tendenza ad accuse di negligenza professionale, i rapporti tra medico e paziente diventeranno così difficili, che i medici diverranno sempre più riluttanti a prendere decisioni che potrebbero salvare delle vite” (McConnel e Williams, in Wasmuth e Wasmuth, 1969). Vi fa eco una sentenza pronunciata in sede di legittimità in cui è affermato che “la diffusa e crescente enfatizzazione in chiave giuridica di questa condizione (consenso informato), che fino a poco tempo fa trovava disciplina organica nel codice di deontologia medica, l’ha trasformata da strumento di alleanza terapeutica tra medico e paziente, teso al soddisfacimento dell’interesse comune di ottenere dalla cura il miglior risultato possibile, in fattore di elevata conflittualità giudiziaria, indotta dalla sempre maggior diffidenza dei cittadini verso le strutture sanitarie e verso coloro che vi lavorano, cui si contrappone l’inquietante fenomeno della medicina difensiva di cui è tra l’altro espressione comune l’ansiosa ricerca in tutti i nosocomi pubblici e privati di adesioni modulistiche sottoscritte dai pazienti, nell’erronea supposizione di una loro totale attitudine esimente” (Cass. Pen., I Sez., sent. n. 26446/02). Un’indagine conoscitiva svolta su un campione di 2416 medici americani ha stimato che negli U.SA circa il 91 % dei professionisti ricorre alla medicina difensiva, con un incremento dei costi pari a circa 60 miliardi di dollari all’anno. Indagini conoscitive In Italia risultano condotte nel 2010 tre differenti indagini conoscitive esploranti il fenomeno della medicina difensiva, da cui emerge che tali atteggiamenti incidono per circa il 12% sulla spesa sanitaria totale e che gli stessi sono prevalentemente adottati per il timore di essere coinvolti in un contenzioso medico-legale. La Commissione Parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali ha stimato che, prendendo in considerazione i soli medici privati, l’incidenza sulla spesa privata del fenomeno è del 14%, (farmaci 4%, visite 2,1%, esami di laboratorio 0,6%, esami strumentali 0,4%, ricoveri 0,1 %). I medici pubblici e privati insieme determinano un’incidenza percentuale dei costi della medicina difensiva sulla spesa sanitaria pubblica del 10,5% (IL TOTALE è 9.7!!!!!) (farmaci 1,9%, visite 1,7%, esami di laboratorio 0,7%, esami strumentali 0,8%, ricoveri 4,6%) e sulla spesa totale dell’11,8% (IL TOTALE è 10,89!!!!!) (farmaci 3,7%, visite 2,4%, esami di laboratorio 0,8%, esami strumentali 0,8%, ricoveri 3,2%).L’incidenza della medicina difensiva sul bilancio dello Stato italiano, in riferimento alla spesa sanitaria pubblica, è di 0,75 punti di PIL, pari a oltre 10 miliardi di euro, che rappresentano all’incirca i fondi per ricerca e sviluppo. L’Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), in collaborazione con il ministero della Salute e con la FNOMCeO, nel 2014 ha presentato i risultati di un progetto di ricerca concernente la sperimentazione di un modello per la valutazione della diffusione e dell’impatto economico della medicina difensiva. Dalla ricerca è risultato che i comportamenti di medicina difensiva maggiormente adottati sono rappresentati dall’iperprescrizione di accertamenti strumentali e laboratoristici. Nonostante l’assenza nelle differenti indagini conoscitive presenti in letteratura specialistica dell’odontoiatria, l’esperienza clinica permette di includere tale disciplina a pieno titolo tra quelle in cui si attuano condotte di “medicina difensiva”, soprattutto in riferimento alla maggiore attenzione rivolta all’informativa al paziente. Di qui il ricorso a moduli prestampati dal contenuto iperspecialistico e pertanto di difficile (o nulla) comprensione per i non addetti ai lavori, la ricerca di un consenso informato attraverso la sottoscrizione dei predetti moduli, la proposta di trattamenti a minor rischio di inconvenienti anche se di minore efficacia rinunciando consapevolmente a quelli più adatti al caso di specie, la mancata presa in carico di pazienti con patologie “difficili”o con riconosciuta tendenza alla litigiosità assicurativa e giudiziaria. Peraltro, nei confronti di quest’ultima tipologia di pazienti, qualora siano comunque presi in carico professionalmente dall’odontoiatra, si amplificano gli atteggiamenti difensivi anche attraverso la prescrizione di numerosi esami iconografici, analisi cinematiche e indagini strumentali finalizzati non tanto a un corretto inquadramento diagnostico, quanto a documentare lo stato anteriore del paziente nel timore che in caso di contenzioso legale vengano avanzati addebiti di superficialità del trattamento. In Gran Bretagna, la Dentai Protection Ltd in collaborazione con l’azienda Admor ha prodotto moduli di consenso dedicati alle procedure che normalmente danno origine a controversie o denunce, incluso un modello per il rifiuto di trattamento parodontale. Scopo di tali prestampati è quello di assistere il medico nel processo di ottenimento del consenso, testimoniando il tentativo del professionista di esplorare la volontà del paziente. L’ottenimento di un valido consenso è un requisito assoluto per il trattamento odontoiatrico; tuttavia, altrettanto importante è garantire che il processo di consenso venga registrato nel diario clinico sotto forma di modulo scritto oppure come descrizione abbreviata della discussione che ha avuto luogo. Relativamente all’aspetto dell’informazione al paziente e dell’espressione della sua adesione consapevole al trattamento prospettatogli, va sottolineato come negli ultimi anni ci si è maggiormente concentrati sull’avvenuta espressione di consenso in ogni vicenda di valutazione circa presunte responsabilità, comportamento che frequentemente devia l’attenzione dall’analisi di appropriatezza dei comportamenti tecnici e assistenziali assunti dal sanitario. Ciò ha comportato la previsione di specifiche clausole di copertura da parte delle compagnie assicurative nell’ambito delle polizze per responsabilità professionale rivolte a odontoiatri. Una sentenza del Tribunale di Milano (18 giugno 2003) concernente un caso di trattamento protesico condotto in maniera tecnicamente inidonea, ha sottolineato che non costituiscono prova di avvenuta corretta informazione né la sottoscrizione da parte del paziente del “preventivo di spesa”, né la consegna al paziente di un prestampato generico senza indicazione delle cure da eseguire. All’opposto, anche un modulo di consenso estremamente dettagliato, dal contenuto iperspecialistico e redatto con terminologia strettamente tecnica, non può essere ritenuto prova di avvenuta efficace informazione per una evidente incomprensibilità dei suoi contenuti a un soggetto di media cultura. Come evidenziato in sentenza, “la firma di un eventuale modulo prestampato non può mai ridursi ad atto formale, teso in via prioritaria a precostituire una dichiarazione di esonero di responsabilità; la sottoscrizione di questi moduli dovrebbe invece costituire il momento finale, di revisione e ripensamento del dettagliato processo informativo che il professionista avrebbe dovuto svolgere per rendere edotta e consapevole la paziente della decisione che si sarebbe assunta autorizzando le cure”.
Limiti delle linee guida
La medicina difensiva alimenta l’ingannevole convincimento di poter arginare le accuse di colpa medica da errata condotta tecnica, tanto da auspicare da più parti il ricorso a “linee guida” o raccomandazioni di comportamento clinico per individuare prestabiliti schemi comportamentali in relazione a specifici quadri clinici, in modo da poter giustificare il ricorso a determinate scelte terapeutiche, venendo in tal modo coltivato “l’insidioso germe dell’adesione medica completa e acritica, dell’abbandono fatalistico alla deriva della medicina difensiva”. Appare a tal proposito essenziale sottolineare che le linee guida costituiscono il risultato di un processo di revisione sistematica della letteratura dell’analisi critica di articoli pubblicati e dell’opinione di esperti che genera raccomandazioni comportamentali di natura diagnostico-terapeutica aventi la finalità di soccorrere i medici nella scelta della modalità di assistenza più appropriata in relazione alle specifiche circostanze cliniche palesategli e, nel contempo, aiutare i pazienti nel loro processo decisionale. Le stesse rappresentano, quindi, delle semplici raccomandazioni con l’obiettivo di offrire un’accettabile standard di qualità delle cure erogate in relazione alle risorse disponibili. In realtà in medicina, confrontandosi con il più complesso degli organismi, la possibilità di imbattersi in comportamenti rigidamente deterministici è praticamente inesistente. La giurisprudenza di legittimità del nostro paese considera le linee guida con critica severità, affermando che “il rispetto delle linee guida… nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate, né all’autonomia e alla responsabilità del medico nella cura del paziente”, sottolineando il dovere del sanitario di disattenderle “laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente, non potendo andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico” (Cass., IV Sez. Pen., sent. n. 8254/11). Pertanto, il ricorso alle linee guida in una pratica clinica di medicina difensiva non assicura meccanicamente una copertura medico-legale1251: l’adesione alle linee guida non esonera il sanitario da profili di responsabilità professionale, essendo il medico dotato di capacità di discernimento e di autonomia decisionale nei casi clinici che gli impongono di non dover osservare quanto in esse previsto laddove la soluzione dello specifico caso clinico lo richieda. In tal modo ci si può trovare di fronte al paradosso che l’adesione alle linee guida rappresenti in taluni casi addirittura la causa di addebito di responsabilità professionale (talora anche a titolo di colpa grave). È del tutto recente (28 febbraio 2017) la definitiva approvazione da parte della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana della norma in tema di “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, in cui è valorizzato il ruolo delle linee guida nella valutazione della condotta del professionista. Nella stessa è previsto che gli esercenti le professioni sanitarie devono attenersi, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste in linee guida elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché da società scientifiche e associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del ministro della salute. Viene anche esclusa la punibilità dell’esercente la professione sanitaria per imperizia qualora l’evento si verifichi pur nel rispetto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida, sempre che tali previsioni risultino adeguate alle specificità del caso concreto. È pertanto contemplata la possibilità di allontanarsi dalle linee guida qualora il caso concreto presenti specifiche caratteristiche, ricadendo comunque sul professionista l’onere di dover documentare le motivazioni che lo hanno spinto a discostarsi dalle raccomandazioni previste. In tale incertezza non è peregrino ipotizzare che il medico/odontoiatra assuma un atteggiamento di tutela del proprio operato conformandolo a quanto previsto in linee guida accreditate nella comunità scientifica, con conseguente limitazione degli spazi di autonomia decisionale dello stesso professionista e, presumibilmente, minori garanzie di cura per il paziente. Ciò in palese contrasto con la posizione di garanzia che investe tutti gli operatori sanitari, indipendentemente dallo loro qualifica giuridica e/o posizione gerarchica, che, in forza di tale ruolo, sono tenuti a fare tutto il possibile per tutelare la vita e la salute del paziente (Cass., IV Sez. Pen., sent. n. 11 aprile 2012, n. 13547).